Prison Architect. Ovvero: Senza passare dal Via
Oggi, tanto per non farci mancare niente, vi parlerò di una campagna chiusa prima della sua conclusione. Nella puntata di “Un Kickstarter per Due” di martedì 18 maggio, parlammo della campagna Kickstarter di Prison Architect: Cardboard County Penitentiary, gioco da tavolo ideato da Noralie Lubbers e Dávid Turczi, prodotto da PSC Games, che prende spunto dal famoso videogame “Prison Architect” appunto.
Senza passare dal Via
Scelsi di parlarne poiché conosco il titolo digitale e perché la scelta di trarre giochi da tavolo da titoli digitali sta ormai diventando prassi piuttosto comune tra case editrici e sviluppatori. Si pensi soltanto ai recenti Darkest Dungeon, Reventure, The Witcher: Old World, solo per restare nell’ambito di progetti che sono approdati negli ultimi tempi su Kickstarter. La lista ovviamente è lunghissima, e a questa si sarebbe aggiunto anche PA:CCP se non fosse che i due autori, a poco più di una settimana dall’inizio della campagna, hanno deciso di prendere le distanze dal progetto stesso.
Prison Architect: una buona(?) idea
Prison Architect: Cardboard County Penitentiary si sarebbe presentato a noi giocatori come un gestionale, esattamente come la sua controparte videoludica. Avremmo impersonato i direttori di un penitenziario e saremmo stati chiamati a occuparci dei detenuti, delle infrastrutture, avremmo dovuto sedare rivolte e controllare i flussi delle entrate e delle uscite economiche per far sì che la nostra prigione risultasse la più sicura, da tutti i punti di vista. Non mi dilungherò troppo nello spiegare le meccaniche di un gioco che molto probabilmente non vedrà mai la luce, anche perché non sono queste che hanno spinto gli autori a distaccarsi dal gioco. In una dichiarazione rilasciata il 26 di maggio su boardgamegeek.com, David Turczi ha spiegato le motivazioni della scelta sua e di Noralie Lubbers. Cercherò di sintetizzare il lungo post.
Architettare un penitenziario
Nel corso delle settimane che hanno preceduto il lancio della campagna e nei giorni seguenti alla sua partenza, i due autori si sono più volte confrontati con una serie di perplessità nate in seno alla community dei giocatori. Il punto principale ruotava attorno ai dubbi sull’opportunità di sviluppare un gioco dove letteralmente si usavano i prigionieri come risorsa, come pedina di scambio e come forza lavoro “schiavizzata”. Sin da subito, Lubbers e Turczi hanno cercato di difendere il loro gioco, appoggiandosi principalmente al fatto che avevano cercato di togliere dal progetto tutti quei riferimenti più controversi presenti nel videogioco. Il primo elemento estromesso è stato il braccio della morte con annessa sala delle esecuzioni.
Fuori da Prison Architect
Inoltre, gli sviluppatori hanno cercato (riuscendoci anche abbastanza bene) di evitare tutti gli stereotipi, le battutine, le semplificazioni che potevano nascere nel contesto di un’ambientazione così spesso vittima di riduzioni becere e discriminanti. Non sono ovviamente qui per difendere Lubbers e Turczi, ma anche volendo assumere che siano riusciti nel loro intento iniziale, restava il fatto che la meccanica dei prigionieri e la tematica del penitenziario continuavano a essere quelle, con tutte le loro problematicità da un punto di vista etico. Etico e di inclusività, come ci tiene a sottolineare l’autore nella sua dichiarazione: sempre più persone stavano infatti sottolineando come questi aspetti suscitassero sentimenti di disagio, allontanandoli dall’idea di provare Prison Architect.
Chiudere la prigione
Anche se all’inizio Lubbers e Turczi hanno provato a spiegare il loro punto di vista, più andavano avanti e più si rendevano conto che avevano creato un gioco che andava contro il principale obiettivo che sta dietro tutti i loro progetti: coinvolgere sempre più persone nella passione dei boardgame. PA:CCP stava ottenendo proprio l’effetto contrario. Non essendo questo fatto accettabile per i due autori, attraverso la dichiarazione hanno distaccato i loro nomi dal gioco, lasciando come la libertà a PSG Games di proseguire con la messa in produzione, sottolineando come non avrebbero comunque accettato alcun compenso in caso di buona riuscita della campagna. Di lì a poco, la campagna è stata chiusa.
Inclusività e design
Non sta a me giudicare la scelta di Noralie Lubbers e Dávid Turczi, benché sia profondamente d’accordo con la loro decisione. Vorrei incentrare le mia attenzione su di un aspetto in particolare di questa vicenda: tra le varie obiezioni sollevate ai due developer, una era che “questa questione interessa soltanto agli americani”. In poche parole, per tradurre, chi se ne frega se questi americani che ultimamente sono così sensibili a queste tematiche di inclusione rompono le scatole, lasciate loro urlare e lasciate noi giocare a quello che ci pare.
La risposta di Turczi e Lubbers credo sia magistrale, perché si appella al fatto che non importa quanto marginale (da quando in qua il mercato statunitense è marginale?) sia la fetta di pubblico, di community, che si sente ferita, che prova disagio di fronte a un titolo: se la stessa esistenza di un gioco può comportare la riduzione del numero delle persone che ci possono giocare, se esiste la possibilità che l’ambientazione, le meccaniche, la grafica o quello che volete possa escludere invece che includere, automaticamente quel gioco non deve esistere. Severo, ma giusto. E ora permettetemi un inciso.
Meno Prison Architect per tutti
Ci consideriamo spesso un gruppo composto da persone “intellettuali”, definiamo la nostra passione “gioco intelligente” e poi non riusciamo a fare il piccolo sforzo di realizzare giochi che non siano offensivi per qualcuno. Sia chiaro, non esistono tematiche che non possono essere affrontate nei giochi da tavolo e nei giochi di ruolo, dipende “soltanto” da come decidiamo di affrontarle tali tematiche, come presentarle. Non potendo vagliare il vissuto di ciascuna persona, abbiamo però l’obbligo di lavorare per ridurre al minimo il rischio che il nostro prodotto sia lesivo, sia escludente, sia fonte di dolore per chi vuole solo giocare. Di base, se vogliamo ridurre la questione all’osso, il bello del giocare sta nel poterlo fare in tanti. Anzi, nel poterlo fare in tutti.
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